RES SUNT CONSEQUENTIA NOMINUM di Pepi Burgio
La letteratura, sganciata com’è dal rigore della costruzione del concettuale, gode del privilegio di consentirsi ampi margini di libertà, preclusi ad altri ambiti disciplinari. E può, talvolta, rintracciare modalità espressive efficaci per rendere chiaro ciò che, in contesti diversi, costringerebbe a un discorso stringato ed astratto. Ad esempio nel rapporto tra le parole e le cose. Argomento, questo, quanto mai impegnativo e scivoloso, soprattutto se affrontato con gli strumenti della teologia e della filosofia; senza dubbio di maggiore plasticità, se ad occuparsene sono gli scrittori.
Un paio di esempi. In Stabat Mater di Tiziano Scarpa, la vita rutinaria ed infelice di alcune putte ospiti di un collegio-orfanatrofio (l’Ospedale della pietà di Venezia), in cui si prova il concerto domenicale d’archi, rigorosamente dietro le grate della clausura, viene sconvolta dall’avvento di un nuovo maestro di violino, tale don Antonio Vivaldi. Da quel momento, la produzione della musica da opaco ripetersi di note muta in forza del sentimento, tensione verso qualcosa che attira. Solo dopo, però, avere intercettato per la prima volta parole come impeto, subbuglio, marasma, passione: le cose che succedono vicino a una persona che si ama.
Secondo esempio. Due secoli dopo, a New York, nel Bronx. Un padre gesuita, padre Paulus, dialoga con un ragazzo assai difficile, Shay, uno di quelli che avevano creato problemi a sé stessi e agli altri. Padre Paulus e Shay sono due fra i tanti personaggi che affollano Underworld di Don De Lillo. Il gesuita, ad un certo punto, in un soprassalto di concretezza pedagogica, dice in maniera risoluta al giovane Shay di descrivere minuziosamente gli orribili stivali che indossa. Successivamente ad una sommaria individuazione delle parti essenziali, Shay si arrende. Padre Paulus allora lo incalza:
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Come si chiama il lembo sotto le stringhe?
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La linguetta.
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Be?
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Il nome lo sapevo, soltanto che non l’avevo vista.
Reazione sconfortata del padre gesuita: Non l’hai vista perché non sai guardare. E non sai guardare perché non conosci i nomi. Dopo averlo sferzato padre Paulus recupera infine il ruolo di guida rassicurante e, sfatati i luoghi comuni circa la presunta insensatezza dell’apprendimento a memoria, raccomanda caldamente a Shay l’importanza dei nomi, vitali per il suo progresso, nonché fondamentale ausilio per la costruzione dell’uomo. La conoscenza dei nomi, dirà in conclusione Shay rivolgendosi a sé stesso, è l’unico modo al mondo di sfuggire alle cose che hanno fatto di te quello che sei.