LA BELLEZZA CAMBIA NOI E IL MONDO di Tano Siracusa
In una delle sue rare interviste giornalistiche Faulkner affermava che la lettura di un romanzo deve procurare piacere, deve divertire.
E’ singolare che a sostenerlo fosse uno degli scrittori più ardui del Novecento.
‘Divertire’ ha una contiguità semantica con ‘distrazione’. In latino dicevano ‘devertere’: cambiare strada, sperimentare un nuovo cammino, cambiare percorso’ traduce il vocabolario. Ma sembra esserci o almeno essere possibile un ampliamento semantico della parola affidato a quella contiguità di significato fra divertimento e distrazione e al comune uso del ‘de’ o di’ oppositivo. Di-vertire, di-s- trarre, de-vertere : a indicare come uno scarto e un rimbalzo, uno sbalzare fuori, su un ‘percorso’, una ‘strada’, uno scenario, un livello di realtà, completamente diversi.
Da dove si ‘de-verte’? Da chi o da cosa mi distraggo mentre leggo un romanzo di Faulkner o vedo delle immagini che ‘mi piacciono’? Dalla realtà, quella che sperimento nel flusso temporale, dalla mia personale vicenda biografica, dal riverbero di angoscia che insidia me come chiunque.
Dalla consapevolezza, ricorda Pepi Burgio in un recente articolo pubblicato su questa testata, che uno come Heminguawy aveva del fatto che ‘ la vita è una tragedia e finisce sempre allo stesso modo.’ Dalla vertigine del nulla che Dostoevskj e Nietzsche mostravano all’Occidente alla fine del XIX secolo e che all’inizio di quel secolo aveva sollecitato in Italia la meditazione del materialista Leopardi.
E verso dove ci conduce il ‘de-vertere’ della creazione artistica?
Verso il ‘piacere’ dice Faulkner. Lo stesso che provava Hemingway scrivendo ‘Addio alle armi’ o, per restare nell’ambito degli autori citati da Burgio, verso quel ‘raccendere l’entusiasmo’ anche quando ciò che le parole mostrano è proprio quel nulla, di cui scriveva Leopardi.
Tutto verificabile e anche vero.
Ciò che rimane tuttavia problematico è il nesso fra ciò che sta fuori e cosa sta dentro la cornice, o in altri termini quanta verità residui nella rappresentazione artistica della realtà.
In questi giorni si discute molto di immagini, fotografiche e video, che mostrano l’orrore. Si discute di immagini che molti definiscono inguardabili, che lo sono per molti.
Non si discute sulla difficile, problematica premessa che sembra costituire l’orizzonte della discussione, e che ha a che fare con quel rapporto.
Proviamo a immaginare i soldati sotto la Croce, sotto le tre croci, con i cellulari. Avrebbero fatto delle riprese come fanno molti di quelli che possono filmare delle atrocità. Come hanno fatto quelli che linciavano Gheddaffi, ad esempio. Immagini, appunto, inguardabili. Ma sotto la Croce immaginiamo che ci siano anche Salgado o McCurry con una macchina fotografica o Malik o Sokurov con una videocamera. E immaginiamo infine di vedere tutte le riprese, quelle della soldataglia e le riprese di quei grandi costruttori di immagini.
Quelle dei soldati saranno orribili e mostreranno l’orrore, le guarderemo e diremo che sono ‘inguardabili’. Quelle del grande fotografo o del grande cineasta le guarderemo e non diremo che sono belle solo perchè la categoria della bellezza (figuriamoci la parola) è stata messa fuori uso dal Novecento, ma che ‘ci piacciono’ si, proprio come intendeva e diceva Faulkner. Come diciamo da duemila anni davanti a molte rappresentazioni della crocifissione di Gesù. Ma è la bellezza che piace.
Alcuni anni fa proprio Salgado, presentando a Roma la sua mostra ‘In cammino’, confessava il timore che le sue foto venissero definite belle, perchè (invece) erano vere. Eppure quel lavoro straordinario che racconta dei popoli in fuga negli anni ’90, suscitava proprio il tipo di ’entusiasmo’ (per la bellezza) di cui scrive Leopardi. E mostravano il dolore, l’ingiustizia, la violenza, e a volte un orrore che poteva essere guardato, che non era perciò più orrore.
Da dove e verso dove conduce dunque il ‘devertere’ della distrazione? Distrae dal male che rappresenta, ne distanzia la realtà introducendoci nel piacere della sua rappresentazione.
La bellezza, la forma, la struttura, l'ordine imprevisto dell'arte, comunque si voglia definire ciò che determina il passaggio dall’esperienza reale a quella estetica, potrebbe non costituire dunque una via di accesso alla verità. Al contrario, allontananerebbe dalla verità: ci sono realtà che possono piacere solo perché non vengono riconosciute come tali, come vere, perché sono state cancellate dal loro contrario. La bellezza, l’arte, la finzione dell’arte, il suo ‘artificio’, può cancellare l’orrore, riesce a disattivarlo.
Nel 2005, a Tarapoto in Perù, ho assistito a un linciaggio. Avrei potuto fotografare quell’orrore e non l’ho fatto, sbagliando: i linciaggi erano pratica diffusa e largamente approvata in Perù, ma inesistente per i media. Sono certo tuttavia che se avessi deciso di fotografare avrei cercato istintivamente una strutturazione della inquadratura coerente con i miei canoni estetici genericamente bressoniani, e probabilmente sbagliando di nuovo. Per restituire l’orrore di ciò che accadeva avrei dovuto fotografare infatti pensando solo alla messa a fuoco, alla distanza e all’esposizione, preoccupandomi solo della correttezza tecnica dello scatto e del suo coefficiente di informazione. Niente geometrie e attimi privilegiati. Avrei dovuto fare una cattiva fotografia, una brutta fotografia, che istintivamente avrei cercato di non fare.
La fotografia di quel bambino morto sulla spiaggia è ‘inguardabile’ anche per la sua estrema semplificazione formale, per la sua nuda, desolata, referenzialità. Non è una foto che può distrarre divertire o piacere. Ed ha scosso milioni di coscienze, ha fatto vedere a tanti quello che era sotto gli occhi di tutti ma che si riusciva ancora a non vedere: l’enormità di quello che sta succedendo, l’enormità dell’egoismo dell’ Europa cristiana e illuminista.
Certo, la verità è comunque oltre, non solo oltre la dimensione estetica ma anche oltre la nuda cronaca dei fatti, oltre le riprese dei soldati romani o dei massacratori di oggi, che con una mano uccidono e con l'altra riprendono le immagini: in una mano il presente, la realtà, l’originale, nell'altra la rappresentazione, la copia non filtrata da intenzioni estetiche, l’immagine meramente mimetica di un presente che è già passato, da diffondere sui media.
L’arte come illusione, finzione, inganno dunque?
Eppure quando il piacere, l’entusiasmo suscitati dall’uso artistico dei linguaggi svaniscono e si esce fuori dalla cornice, quando si rientra nell’esperienza quotidiana, nella propria biografia, ci si accorge a volte che quell’emozione estetica, quell’’entusiasmo’, il piacere di quella finzione, hanno un po’ cambiato il paesaggio reale, la nostra esperienza quotidiana nel mondo. L’orizzonte si è allargato, disponiamo di nuove prospettive, percepiamo altro.
Mettersi in ascolto di Dostoevskij o Faulkner, di certe immagini o di Mahler può ‘piacere’, distrarci, divertirci, può farci assentare da noi stessi e dal mondo che ci è familiare. Ma può capitare di scoprire poi di essere stati cambiati da quell’ascolto, che il mondo attorno a noi da allora è un po’ cambiato. Non salvato, ma cambiato, più complicato, più sfuggente e più nostro.