IL MISTERO SPIEGATO DEL PIACERE ARTISTICO di Pepi Burgio
Cosa resta delle cose che ascoltiamo, guardiamo, leggiamo? Assai poco, almeno apparentemente, diremmo alcune volte; altre volte siamo disposti ad affermare che sì, senza dubbio qualcosa rimane. Dipende.
C’è poi quell’esperienza, infrequente ma non rara, che ci accende anche quando non la poesia, non la musica, non le immagini ci avvolgono nella loro fascinazione. Ma, per esempio, la profondità di un concetto o il dire in prosa qualcosa, magari criptica ma che si avvale di una notevole forza seduttiva. Certa letteratura possiede questa qualità, si potrebbe stendere facilmente una lunga lista di brani; anzi il compilarla, il comporla, forse procurerebbe una certa infantile eccitazione, un incontenibile entusiasmo. A priori, talvolta anche a prescindere dai contenuti dispiegati.
Molti anni fa, in un testo esemplare, assai felice di Salvatore Lo Bue, La musa drogata - Saggio sulle origini della poetica, a proposito della poesia, parola che sana, e della gioia che produce, l’autore ha citato un brano dello Zibaldone di Leopardi. Ogni volta che mi è stato possibile l’ho citato, non sapendo in verità se essere più riconoscente nei confronti di Leopardi che lo ha scritto o di Salvatore Lo Bue che me lo ha fatto conoscere. Come per l’Adagietto della Quinta di Mahler, il ritmo della catastrofe secondo Adorno, che ho ascoltato per la prima volta in Morte a Venezia di Visconti. Ma eccolo, infine: Hanno questo di proprio le opere di genio, che quando anche rappresentino al vivo la nullità delle cose, quando anche dimostrino evidentemente e facciano sentire l’inevitabile infelicità della vita, quando anche esprimono le più terribili disperazioni, tuttavia ad un’anima grande che si trovi anche in uno stato di estremo abbattimento, disinganno, nullità, noia e scoraggiamento della vita, o nelle più acerbe e mortifere disgrazie […] servono sempre di consolazione, raccendono l’entusiasmo e non trattando né rappresentando altro che la morte, le rendono, almeno momentaneamente, quella vita che aveva perduta. Qualcuno, autorevole, si è soffermato sulla prosa formalmente perfetta di Leopardi: ovviamente è così. Ma è indiscutibile anche il contenuto di verità che le affermazioni del poeta rivestono. Chiunque abbia fatto esperienza della fruizione di un’opera di genio, sa che ciò di cui parla Leopardi ha valore oggettivo, in un certo senso si compie prescrittivamente; ed ha relazione con quei meccanismi psicologici, diremmo oggi, che stanno alla base delle dinamiche della catarsi. Essa determina una scarica tutt’altro che dannosa dalla quale l’anima riesce purificata (M. Pohlenz); è un’emozione che ci risana (G. Reale). Dice Aristotele nella Poetica: Anche di ciò che ci dà pena vedere nella realtà godiamo a contemplare nella perfetta riproduzione, come le immagini delle belve più odiose e dei cadaveri.
La catarsi consiste quindi nel miracolo, compiuto dal canto, dalla narrazione, dalla poesia, dalla pittura, quando attraverso il disvelamento e la trasfigurazione converte la drammaticità del reale in approvazione entusiastica della vita; provocando un’eccitazione erotica che destituisce ogni separatezza di corpo e anima. Ciò si verifica nell’autentica fruizione artistica e nell’avvertimento sofferto e drammatico che accompagna e connota ogni vera creazione poietica.
Ernest Hemingway, nell’introduzione ad Addio alle armi del 1948, pubblicato per la prima volta nel 1929, scriveva: Il fatto che la materia del libro fosse tragica non mi rendeva infelice, perché ero sicuro che la vita è una tragedia e finisce sempre allo stesso modo. Ma il vedere sempre in modo nuovo che era possibile creare qualcosa, tanto veridicamente da ricavarne felicità nel leggere gli effetti della creazione, e ritornare a farlo tutti i giorni di lavoro mi dava un piacere superiore agli altri che avevo già conosciuto. E indubbiamente, quanto a piaceri Hemingway certo se ne intendeva.