QUEL VIAGGIO MANCATO CON MIO PADRE di Alfonso M. Iacono

In un freddo febbraio mi portarono a dormire dai nonni paterni. Sapevo che nonno Nino era malato e avevo capito che il mio trasferimento dai genitori di mio padre era connesso alla sua malattia. Lo sapevo bene perché una sera dell’estate prima era venuto in camera mio zio a dire a mia madre che il nonno era molto malato e che il dottore aveva dato una diagnosi che non lasciava speranze. Era perfino andato a Palermo ma le cose non erano migliorate. In quei giorni di febbraio non volevo né sapere né capire. Nonostante il freddo, stavo quasi sempre fuori sulla terrazza. Sullo sfondo di una smossa campagna e di poche case sparse qua e là c’era la stazione bassa e io potevo vedere passare i treni che partivano dalla stazione principale o che vi stavano arrivando. Era la vecchia stazione prima che facessero negli anni ’30 quella centrale dopo che avevano devastato le bellissime mura medievali. Dalla terrazza dei miei nonni paterni si potevano sentire respirare e sferragliare le locomotive che spesso lanciavano getti di fumo bianco. Più silenziose e meno spettacolari le littorine. Quelle a scartamento ridotto che scendevano verso il mare e quelle normali dirette all’interno. La mattina passava il treno che sarebbe andato a Roma, o meglio, che aveva un vagone diretto alla capitale. Un treno che avevo già preso e con cui avrei ancora viaggiato d’estate per andare in Continente con i miei genitori, a Roma, Sanremo, Firenze, Torino, Milano, Venezia, Napoli. Un viaggio lunghissimo, fatto di molte ore piene di immagini dal finestrino che si mescolavano dolcemente ai sogni a occhi aperti. Un viaggio che percorreva il giorno e la notte. Chi poteva dormire? Il traghetto, la sera, con l’infinito andirivieni dei vagoni che lentamente si assestavano sullo scafo, scomponendosi in tante parti e il fanale che alternativamente segnalava al macchinista di manovra di entrare, uscire o fermarsi, illuminando una E, una U, una F, mentre io guardavo dal finestrino aperto. E poi, una volta ancorati i vagoni, mentre la nave usciva lentamente dal porto, in accordo con i passeggeri dello scompartimento, precipitarsi a turno sui ponti verso il bar o sulle ringhiere. Poi l’uscita dallo scafo e il treno che riparte. Il golfo di Salerno, Napoli, Roma. Non riuscivo a farmi vincere dal sonno. E poi l’alba e il mattino con il treno in corsa nelle curve potevo vedere lontana in avanti la locomotiva elettrica che ci stava portando a destinazione.

Tutto questo passava nella mia mente, mentre, guardando verso la stazione bassa, un treno si stava muovendo per poi fermarsi qualche minuto. Accanto una littorina a scartamento ridotto stava per partire verso la linea del mare. Non volevo sapere che mio nonno stava morendo. La vista dei treni mi portava altrove rispetto a qualcosa che stava finendo. Con mio nonno se ne andava via l’insieme di un’intera famiglia che oggi si chiamerebbe allargata: nonno, nonna, mamma, papà, tre zii e una prozia. Ero figlio unico ma vivevo come se non lo fossi. Anzi, con tutti i vantaggi del figlio unico senza subirne gli svantaggi.

Il terzo giorno mia zia mi accompagnò a casa e lungo la strada, dopo avermi comprato della cioccolata, mi disse che mio nonno era morto. Arrivammo a casa. Era piena di gente. Vidi mia madre vestita di nero, come usava allora, piangere senza sosta e mio padre con la fascia del lutto sul braccio. Dopo di allora niente fu lo stesso. Nel giro di pochissimi anni la casa si svuotò e mia nonna rimase sola, orgogliosamente sola. Ma continuò a raccontarmi tante volte dell’Africa, della Somalia dove erano andati ed erano stati felici. Anche mia madre lo pensava. Mi narrava del viaggio di ritorno, lei con cinque figli e una nipote piccolissima (il nonno e il figlio maggiore erano rimasti prigionieri degli inglesi), a circumnavigare l’Africa e ad arrivare a Taranto dopo quaranta giorni, senza niente perché tutto le era stato rubato. Da Taranto a Pistoia e da Pistoia negli Abruzzi a svernare nel ghiaccio, loro che erano siciliani e venivano dall’Equatore. Mi raccontava che nei funerali le bare venivano lanciate verso il basso sulla neve. Mi raccontava della fame sua e dei piccoli, di zio Umberto che si lamentava sommessamente: “mamma, ho fame, mamma ho fame”. Quelle parole sono rimaste attaccate alle orecchie di mia nonna che non le ha potuto dimenticare. E dopo, il ritorno verso la Sicilia, l’aiuto di molti ex soldati che tornavano a casa, lo stretto tra i bombardamenti, proprio come se Scilla e Cariddi fossero tornati a lottare stavolta con gli aerei, i cannoni e le bombe, e poi finalmente l’arrivo a casa. Tante volte mi raccontava questa storia e a me piaceva. Tornarono tutti con il mal d’Africa, soprattutto mia madre che non voleva crescere, non voleva sposarsi, non voleva avere figli. Lavorava già. Ma in quegli anni se qualcuno bussava alla porta, ci si sposava. Lei in realtà stava bene con sua madre, cioè mia nonna, e con il suo lavoro. Aveva tanta nostalgia del fascismo che aveva permesso alle ragazze di fare sport e dell’Africa, dove di nascosto andava di nascosto a sbirciare affascinata le feste dei somali nonostante il divieto, perché non bisognava interferire con la loro vita sociale. Tante volte, con aria innocente e con un amore forse fraterno più che materno, mi diceva che non avrebbe voluto avere figli, che non mi voleva. Non mi sentivo respinto. Non mi stava rifiutando. Non voleva essere madre. Mi amava, lo sentivo, ma non come una madre ama un figlio. O forse sì. Non l’ho ancora capito. Chi lo sa come una madre ama il proprio figlio. Viveva di piccole meravigliose gioie e di tristezze fulminanti. “E’ comu una picciliddra”, dicevano tutti e tutti la accettavano tranquillamente così. L’accettavo anch’io così? Per anni non ci sono riuscito e forse non ci sono riuscito mai.

Per tutto il tempo ho visto mio padre con gli occhi di mia madre, la quale aveva un’adorazione per i suoi fratelli. Amavo mio padre, ma i miei punti di riferimento erano gli zii. Una mattina dovevamo fare una gita con la nuova Fiat 1100 di mio zio. Ero eccitato. Venne mio padre, il quale doveva andare per lavoro in un’altra città. Mi implorò di fare il viaggio con lui. Sentivo la sua rabbia e la sua gelosia nei confronti della famiglia di mia madre, che era poi in effetti la mia famiglia. Andai con mia madre, mia nonna e gli zii. Fu una gita memorabile. Ricordo ancora dove abbiamo mangiato e tutti i dettagli dell’auto, di quelle con la marcia sullo sterzo, ma per tutta la vita mi sono sentito in colpa nei confronti di mio padre per non essere andato con lui. Ancora oggi non so se ho fatto bene e mai lo saprò. Fu la prima di quelle contraddizioni che dobbiamo affrontare nella vita quando, di fronte a due possibilità, siamo costretti a sceglierne una. Anche quando siamo convinti di avere scelto bene, ci resta sempre il rimpianto di di ciò che abbiamo dovuto abbandonare. Perfino quando un scrive, come ora sto scrivendo, entra il scena il dramma di ciò che metti nero su bianco, ma anche e soprattutto di ciò che decidi di non mettere. Scrivere è anche e forse soprattutto un rinunciare. Ogni racconto come una mappa non può e non deve essere identico all’evento che viene descritto. Esso toglie sempre qualcosa e aggiunge sempre qualcosa, come ben sapeva Italo Calvino quando, nelle Lezioni Americane, ci dice che appunto il linguaggio non può non aggiungere e non può non togliere qualcosa alla realtà di sta parlando. Eppure scrivere, ricordando e raccontando, è tutto ciò che prometeicamente resta agli uomini per far rivivere il passato.

Viaggi in macchina ne facemmo molti tanti anni dopo, quando mio padre cominciava a soffrire di demenza senile ed io lo portavo a fare lunghi giri. Ogni tanto, in un momento di lucidità, mi confessava la sua condizione di cui era perfettamente consapevole, ma poi tornava a essere quel che fui io quando, guardando i treni dalla terrazza, non volli sapere che mio nonno stava morendo. Ad ogni modo fui felice di viaggiare in macchina con lui e mi sembrava che anche lo lui lo fosse. Venti, trenta, quaranta viaggi non poterono certo sanare del tutto il mio rifiuto di quella volta, eppure mio padre non smise di accettarmi e di accogliermi nonostante quel mio infantile, ai miei occhi ancora imperdonabile, tradimento.

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