'PUNTONAVE'. DELLO SCRIVERE BREVE DEL CAPITANO ALESSANDRO di Giandomenico Vivacqua

Dirò una cosa che forse tradisce un approccio provinciale, dialettale, a questo rito di parola che stiamo celebrando. Dirò che qui intervengo nella qualità di amico di Vittorio Alessandro: questo è il mio unico titolo, la mia unica legittimazione, io non essendo un critico, uno scrittore o un marinaio. Sono amico di Vittorio e sono un suo lettore, così come sono un ascoltatore delle cose che dice e un osservatore delle cose che fa. Lo sono in primo luogo sul piano della vicinanza sentimentale e dell’affinità psicologica, secondariamente sul piano della condivisione di un punto di vista generale sulle cose del mondo, un punto di vista che sinteticamente potrei dire “politico”. Ciascuno di voi, adesso, sa che per parlare di un’impresa di Vittorio con la dovuta oggettività io sono una delle persone meno indicate, difettando radicalmente in me il requisito della terzietà, come si dice dei giudici. Dovrei dunque cedere la parola a qualcuno che sia meno partigiano di me, meno compromesso con l’ammiraglio? Per fortuna questo non è un processo, io non sono un giudice; semmai un testimone (escluso, come detto, che possa essere un perito, ossia un esperto, di libri o di mare)

Un testimone sì, ed intendo deporre, riferivi quel poco che so. Che credo di sapere.

Io so che Vittorio Alessandro è un marinaio e che Puntonave, il volume che presentiamo questa sera, è il libro scritto da un ufficiale della Marina Militare, del corpo delle Capitanerie di Porto. In esso, nella forma della nota, dell’annotazione, sono trattati i temi e gli avvenimenti principali che hanno impegnato gli ultimi anni di servizio del capitano Alessandro (dico capitano perché il libro copre un periodo precedente alla sua promozione al grado di contrammiraglio), dai salvataggi dei migranti alla bonifica ambientale del mare alla dismisura catastrofica del diporto croceristico. Sono i frammenti di una affascinante esperienza, umana e professionale, che si depositano sul fondo di una biografia più lunga e più vasta , evocando le tracce e le memorie di una vita intera: il rapporto con il padre, il paese d’origine, la comunità degli amici, le donne, le piste letterarie e musicali. Tutte cose riguardate dalla parte del mare. Questa è la peculiarità del libro, in quanto è la peculiarità del suo autore.

Il mare semplifica, proprio nel senso aritmetico, riducendo l’infinità problematicità della vita sulla terra ferma a pochi imperativi categorici, ad una sola urgenza morale: bisogna essere, fino in fondo, uomini di mare. E per esserlo bisogna rinunciare al predicato, rimanendo soltanto uomini.

Vittorio Alessandro, che è anche un giurista, conosce, meglio di altri, le insidie e le insufficienze della legge positiva. Ma egli sa, non per ingenuo giusnaturalismo ma per matura consapevolezza dei valori umanistici che discriminano la nostra specie da altre forme di vita ferina, che c’è una legge superiore alla legge positiva, più chiara ed essenziale. Una legge che vincola e protegge gli uomini e le donne che scommettono la propria vita sul mare. E Vittorio Alessandro non si limita a saperla: egli è oggi uno dei più sensibili ed attrezzati interpreti della lettera e dello spirito della la legge del mare, che con la sua cogenza impone di salvare la vita nuda ed esposta senza nessuno scrutinio delle circostanze, senza pregiudizio e senza altra prudenza che quella dell’uomo valoroso che nella sofferenza del suo simile vede se stesso, nella infinita reversibilità dei casi della vita.

Il giornale di bordo dell’Ammiraglio Alessandro è dominato da uno stile. Intanto parliamo della brevità delle sue note. Gli bastano poche righe, mezza pagina, una al più per dire l’essenziale su questioni di capitale importanza. Egli evoca e suggerisce con poche frasi, armoniose, equilibrate, con i suoni di una lingua densa e familiare, ma mai prevedibile o consumata nell‘uso di stereotipi espressivi. Questa lingua è l’italiano, che non è l’italiano, come dice il professor Franzò di Sciascia, ma un ragionare appassionato e serio, ed elegante - dove l’aspetto formale è una risorsa della sostanza, e non certo l’ornamento compiaciuto di un di pensiero declinante. La brevità della nota esprime un ordine mentale, contrapposto a quello dello scrivere lungo, cui Vittorio tende per natura e per mestiere: è l’attitudine di chi, per farsi capire e, quando serve anche per farsi obbedire, sa che deve concentrare in poche parole, chiare parole, precetti impegnativi. Io ho una certa esperienza della vita militare e so riconoscerlo: è lo stile del comando. Ma che in Vittorio è addolcito da una fraternità quasi evangelica, che rimanda ad alcune esperienze memorialistiche del nostro Novecento, da Emilio Lussu a Rigoni Stern. Per concludere sullo scrivere breve di Vittorio, mi limiterò a dire, con Italo Calvino, che “la vera vocazione della letteratura Italiana, come quella che custodisce i suoi valori nel verso o nella frase in cui ogni parola è insostituibile, si riconosce più nello scrivere breve che nello scrivere lungo”.

Dunque, per quanto i temi siano anche molto vari, e non manchino in un concerto di colori le nuance intimiste, crepuscolari, nostalgiche, per me il libro di Vittorio è, ed è questo che a mio giudizio gli conferisce uno statuto etico ed estetico definito, essenzialmente il memoriale di un ufficiale, un diario storico, una rassegna di problemi e di questioni pratiche di grande importanza, in un momento drammatico della nostra storia.

Il pathos che sprigiona dalle pagine del diario del capitano Alessandro non è, naturalmente, l’ansia del ritorno dalla Russia o dalle trincee della Grande Guerra, ma è il sentimento di chi sa che, insieme ai barconi degli infelici, nel canale di Sicilia rischia di affondare il senso della convivenza europea, ossia quei valori universalistici richiamati dalla nostra Costituzione, e dalle altre Carte europee, sulla quale, egli, ufficiale e marinaio della Repubblica, ha giurato fedeltà.

Non sono pochi gli autori e i libri che Vittorio cita nelle sue pagine. Ma non dà mai l’impressione che sia lo sfoggio di chi ci tiene ad ostentare una superiore competenza letteraria, ma semmai il piacere di condividere la vertigine di una buona lettura. Tra gli altri, appropriatamente, cita l’autore di La linea d’ombra, Joseph Conrad, il marinaio polacco che scriveva in inglese e che non era un semplice “ospite illustre” di quella letteratura, come lo definì Virginia Woolf, ma il più profondo interprete di un mondo, di una tradizione, quella della marineria britannica, nel passaggio dal rigore umanistico della navigazione a vela agli eccessi disumanizzanti della navigazione a motore, correlata all’imporsi della modernità industriale. Ebbene, specularmente a Conrad, che ha descritto la dissoluzione di un vecchio paradigma attraverso personaggi incapaci di adattarsi al nuovo ordine, sconfitti, vagabondi, nostalgici impantanati in esotici altrove (si pensi a Lord Jim, a Kurtz), Vittorio Alessandro descrive nelle sue note la crisi lacerante di un mondo, di cui si intravede la fine. Che non è, attenzione!, il mondo da cui provengono i protagonisti delle infelici odissee di cui ci parla, ma il nostro. Siamo noi, quelli destinati a passare, a naufragare nel mare della storia. Noi, i nostalgici incapaci di adattarsi alla nuova situazione. Noi, gli inetti che si rifiutano alle sfide dell’oggi, per quanto terribili esse siano, e che, sconfessando i principi costitutivi della propria identità, rischiano di essere sommersi. In questo paradosso, siamo noi che rischiamo di naufragare nel canale di Sicilia e non per un peccato di hybris, come l'Ulisse dantesco, ma per il suo esatto contrario, la tremebonda incapacità di osare, nell'incontro con l'altro.

Possiamo credere o non credere al profeta Alessandro, ma al capitano Alessandro dobbiamo credere, perché, come scrive ancora Calvino a proposito di Conrad, “se a molte cose sue non ho mai creduto, al fatto che fosse un bravo capitano ho creduto sempre, e che portasse nei suoi racconti quella cosa che è così difficile da scrivere: il senso di una integrazione nel mondo conquistata nella vita pratica, il senso dell’uomo che si realizza nelle cose che fa, nella morale implicita nel suo lavoro, l’ideale di saper essere all’altezza della situazione, sulla coperta dei velieri come sulla pagina”.

( Si tratta  della trascrizione dell'intervento di Giandomenico Vivacqua  alla presentazione del libro di Vittorio Alessandro 'Puntonave' svoltasi a Porto Empedocle il 10 maggio scorso)

 

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