DELLA STRUGGENTE BELLEZZA DELL'ABBANDONO di Tano Siracusa

L’altra sera mentre Fausto D’Alessandro parlava dell’indifferenza io pensavo all’invisibilità, che è forse una espressione particolare, estrema, dell’indifferenza. Certi luoghi sono invisibili, e perciò ci sono indifferenti. O viceversa ci sono talmente indifferenti da essere diventati invisibili: malgrado o forse a ragione della loro prossimità. Due di questi luoghi sono ad Agrigento il Parco dell’Addolorata e Santa Croce: quel che rimane di Rabato dopo le sottrazioni della frana e le aggiunzioni compensatrici del Gui Mancini, come il Parco Addolorata (e il ponte Morandi).

 

Se voglio stupire un visitatore della città lo porto in questi luoghi disabitati, dove si consuma lentamente il degrado dei materiali vecchi e nuovi, i conci di tufo e il cemento, corrosi anche dalla vitalità della vegetazione spontanea: magnifica, lussureggiante e meticolosamente distruttiva.

Due luoghi spaesanti, legati entrambi ad un passaggio storico della Agrigento moderna, la frana.

Il Parco Addolorata potrebbe essere il grande polmone verde della città, del suo migliore tempo libero, con un magnifico teatro, un’ arena cinematografica, le attrezzature sportive, e poi le vedute grandangolari da Punta Bianca a Porto Empedocle, fino al panorama settentrionale, a Montaperto, Giardina: concerti, teatro, cinema all’aperto quattro mesi l’anno, passeggiate, pratiche sportive lontano dai rumori della città, immersi nel silenzio della collina che scende e si inoltra nella valle.

- Come mai è abbandonato? Perché non viene utilizzato? domanda il visitatore che non capisce.

E si prova qualcosa dell’amara soddisfazione del siciliano che sa di non poter spiegare, o che sarebbe troppo complicato: ipotesi, solo ipotesi, come quella di Settimio Biondi che ritiene probabile un’ancestrale avversione degli abitanti del territorio per questo pendio della collina dove si percepirebbe un’energia negativa, o come quella di chi attribuisce il rifiuto del Parco ad una freudiana rimozione collettiva del trauma della frana.

Di sicuro gli agrigentini il Parco Addolorata non lo hanno voluto, e adesso ci dorme un vagabondo, lo frequenta un mite e festoso branco di cani randagi, qualcuno che ci va a correre. Sopra, in alto, incombono i palazzoni, giù si allarga la panoramica della valle e il mare.

E allora si va a Santa Croce, e anche lì c’è silenzio, solo il soffiare del vento, e attorno case vuote, alcune crollate, qualcuna rattoppata, gatti, e qualche macchina posteggiata proprio dove comincia una scalinata, qualche infisso nuovo, campagna e orti dove c’erano case; e anche lì, ma guardando a sud, la barriera dei palazzoni tirati su prima della frana, fra questi luoghi dove si raggruma ancora un po’ di vita e, lontano, il mare.

Il visitatore può anche essere un agrigentino, neppure molto giovane. Qualche anno fa, in occasione di una serata a Santa Croce, molti quarantenni si guardavano attorno come dei viaggiatori e si stupivano di non essere mai stati lì.

Si sarebbe tentati di riconoscere la poesia di questo sfascio, che i segni del passare del tempo sulle cose e sulle case abbia una sua struggente bellezza, ma è meno dubbio che l’unico possibile futuro della città passa anche da una piena integrazione di questi luoghi all’abitare e al vivere degli agrigentini.