"NOSTRO ONORE" RACCONTO LEGGERO DI UNA VITA IN PRIMA LINEA di Alfonso Leto
Submitted by redazione on Wed, 05/11/2014 - 12:04
Fra tutti i libri che lo sconfinato scaffale dei generi “mafia” o “antimafia” può contenere (nell' esercizio letterario dell’uno o dell’altro o in quello ibrido, esecrabile, e già ampiamente collaudato della mafiadell'antimafia), non può trovare posto “NOSTRO ONORE”, il libro che Marzia Sabella ha scritto con Serena Uccello per Einaudi. Non che il suo contenuto non abbia attinenza con la sua professione e la sua ormai lunga esperienza di PM alla procura di Palermo (e oggi come consulente della Commissione parlamentare antimafia) o che all’interno di quella esperienza non siano maturate storie e racconti che per automatismo si rubricano nella categoria antimafia e per converso mafia, ma semplicemente perché lo sguardo che Marzia Sabella ci offre è così dentro le cose da non far posto alle automitologie e ai selfie mentali tipici delle categorie di cui sopra. Anzi, direi che il suo appassionato e umano (troppo umano) racconto del suo vissuto (a cominciare dalle cronache di una cattura eccellente come quella di Bernardo Provenzano), proprio mentre ci fa dono delle preziose e gustose confidenze e degli stati d'animo di uno dei giudici più riservati e umbratili della Categoria, ci consegna sottilmente la certezza che pure dopo questo libro, lei, continuerà ad essere la persona (non il personaggio) che è sempre stata: coltivatrice di passioni umane e civili, protette dalle banalità, dalle ipocrisie e dal conformismo, con la dura scorza della dignità e della tensione costante, come dura disciplina, «di non fare errori», una scorza a cui qualcosa forse deve alle montagne dell'entroterra agrigentino ove è nata e cresciuta (quella "Sicilia fredda” di sciasciana memoria), certamente complice l'educazione eccellente di due straordinari genitori avvocati e le esperienze parallele e convergenti di un fratello, Alfonso, i cui successi nel pool di Giancarlo Caselli sono già stati consegnati alla storia con quel suo "Cacciatore di mafiosi" (Mondadori, 2008).
Nostro Onore ha il merito di far deviare il lettore da ogni rotta precostituita ad uso dell’eroe civile "d'ordinanza", buono per i talk show e le apparizioni roboanti, quando non strumentali, per consegnarci invece le vie accidentate e imprevedibili che vedono una giovane donna (aspirante notaio, incagliatasi per professione nel sistema gerarchico della giustizia, per via di un concorso in magistratura fatto quasi per caso), diventare giorno per giorno un'autentica macchina da guerra al crimine qualunque sia la faccia con la quale questo si presenta nel suo quotidiano professionale e umano (dai reati odiosi della pedofilia, a quelli non troppo e non sempre odiati in giusta misura della mafia e del suo esteso e variegato mondo). Una storia, quella di Marzia Sabella, tanto esemplare quanto atipica, persino per l'uso del registro ironico (l'ironia che salva, quell'ironia "passione che si libera nel distacco", per Goethe), che ce la fa sentire così vicina specie quando ci consegna criticamente quel mondo trasversale di stereotipi che attraversa implacabile sia l'inferno del crimine (l'antistato) che il preteso paradiso dei giusti (lo Stato), tanto che ad un certo punto così si legge: «A me, sostituto di reati ordinari, imbarazzavano pure coloro che presero a dire Giovanni e Paolo, a ogni occasione. Giovanni e Paolo. D’un tratto amici postumi e tardivi. D’un tratto divenuti il lasciapassare di integrità e dignità per chi mai dignità e integrità aveva avuto».
Nostro Onore é un balsamo per tutte le nostre certezze tradite giorno per giorno dagli eterni nemici della Giustizia, dell'Umanità, e di quanti sotto mentite spoglie se ne fanno interpreti ora grigi, ora tronfi, ora indegni.
Queste memoires di una donna siciliana magistrato sono persino un documento linguistico di grandissimo pregio e generosità, che pur nel clima generale di scoramento (forse anche personale), ci offre uno squarcio di luce e di fiducia come quando, chiamata a tenere un incontro con gli studenti di una università, tra mille ragionamenti riluttanti, ci consegna questa preziosa riflessione che è forse il nucleo della sua intima anima libertaria, ancorchè sorretta sulle basi ideali e praticate di regole certe e condivise a garenzia di tutti «…Se è sulla legalità non vengo. No, è sui collaboratori, qui da noi ne sappiamo tanto poco. La legalità. Non se ne può più: Legalità e solidarietà, legalità e cinematografia, legalità e riti sacri, legalità e personale paramedico, legalità e arte con particolare riferimento al cubismo, legalità e gondolieri di Venezia, legalità e divieto di balneazione. Il vuoto della legalità che si riempie con la tuttologia della legalità. La violazione della legalità che si riempie con il marchio della legalità. Tutti paladini e promotori di legalità: Ma la legalità è cosa seria, specie se la platea è giovane. Specie se i ragazzi, cooptati a sorbirsi i soliti convegni di sbandieramenti di legalità, ne hanno le scatole piene della legalità. Sarebbe meglio parlargli di libertà: Che sempre legalità è. Ma suona in un altro modo. A quell’età si preferisce dichiararsi liberi piuttosto che legalizzati.»
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