GUADALCANAL. QUELLA SOTTILE LINEA ROSSA TRA MODERNITA' E ARCAICITA' di Tano Siracusa

Guadalcanal, primavera. Ore 7 di matttina.
L’uomo passa davanti nudo e non ti guarda: come per provocare una magia, come se fingendo l’invisibilità dell’altro si possa suscitare la propria. Sbuca dal folto della vegetazione tropicale, entra nella cucina veloce e silenzioso e va diritto ai fornelli dove in una pentola rimane un avanzo di riso bollito della cena. Usa la mano come un cucchiaio. Mangiando ti passa davanti di nuovo, ancora senza vederti, come se tu non esistessi per lui, e si avvia a passo svelto verso il lussureggiante folto di verde che circonda la cucina del parroco. E’ nudo, completamente nudo. Il parroco, che abita questi locali macerati dal caldo umido e invasi dai topi, sa delle incursioni furtive dell’uomo nudo. E’ di un altro villaggio, dice, è solo un po’ pazzo. Nel villaggio del prete la sera con un gruppo elettrogeno si riesce ad accendere un piccolo televisore, si proietta un video, si fa festa per l’arrivo del dott. Aldo. Ci sono tutti, manca solo lui. E’ uno strano prete. La mattina va a dire messa al villaggio, poi torna nella sua casa nascosta nella boscaglia e vi trascorre l’intera giornata assieme al suo cane che si gratta continuamente. Ogni tanto rolla delle grosse canne di tabacco. Secondo ogni evidenza il suo modo di accettare e di commentare le incursioni dell’uomo nudo è da buon cristiano.
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Honiara è la capitale di Gudalcanal, la principale delle isole Solomon. Negli ultimi tre anni terremoti, maremoti e inondazioni hanno duramente colpito la città e distrutto alcuni villaggi sulla costa. Nella capitale, prima della disastrosa alluvione nell’aprile di quest’anno, sulla strada principale che costeggia l’oceano si affacciavano centinaia di piccoli negozi gestiti dai cinesi.
Erano loro a fare circolare il danaro in uno degli stati più poveri del pianeta. Povertà economica, quella che si misura a Pil e a reddito giornaliero. Perché esistono altri parametri per misurare la povertà, altri vocabolari per spiegare il significato di questa parola. Qui ad esempio il paradiso e l’inferno sono vicini, a pochi chilometri di distanza. E non è un problema di dollari, o almeno non solo.

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A mezza giornata di barca a motore da Honiara c’è un villaggio, uno dei tanti su queste spiagge bianche da dove spiccano altissimi gli alberi del cocco. Paesaggio da cartolina, di quelle dove i turisti, gli hotel, le case e i locali non vengono inquadrati per dare l’illusione di una natura incontaminata. Solo che qui non ci sono proprio. Le strade del villaggio in terra battuta sono pulite, la gente cammina serena, a cento metri dalle abitazioni, oltre il palmeto, c’è la spiaggia, l’oceano, il pesce da pescare. Alle spalle del villaggio l’onda verde della foresta, enorme riserva di cibo. C’è anche un presidio sanitario, asettico, efficiente.
A un paio di ore di pista da Honiara, infossato in una valle, c’è un villaggio lambito da un fiume. Gli indigeni sostengono che i cercatori d’oro avvelenano l’acqua, e forse per questo se ne stanno oziosi e tristi davanti le loro abitazioni vegetali, molti con le ferite infettate provocate dai morsi dei maiali che girano liberi per il villaggio. C’è anche un lebbroso. Qui la casa dell’infermiere è una capanna dissestata che nessuno ha mai abitato. Pagano troppo poco per invogliare la gente a lavorare in quest’inferno.
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L’ospedale è grande, luminoso, attrezzato, costruito con risorse del volontariato italiano. Mezz’ora da Honiara, un grande spazio recintato attorno all’edificio. La suora peruviana ne attraversa i corridoi e le sale vuote: c’è tutto in questa magnifica struttura, i letti, gli arredi, le attrezzature, mancano soltanto i medici e gli infermieri, il personale specializzato. E quindi anche gli ammalati. In questo caso il danaro, la mancanza di danaro, costituisce il problema principale. E chissà, forse anche la mancanza di informazione. Forse fra le migliaia di giovani medici italiani in cerca di lavoro ce ne saranno alcuni disposti a fare una importante esperienza professionale e umana in uno degli angoli del pianeta meno invasi dalla modernità.

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Molti pensano di non sapere nulla di Guadalcanal. Se invece hanno avuto la fortuna di vedere ‘La sottile linea rossa’ di Malik, uno dei più bei film sulla guerra e contro la guerra, hanno visto molto dell’isola e dei suoi abitanti. Durante la seconda guerra mondiale giapponesi e statunitensi si sono massacrati in una delle battaglie più lunghe e sanguinose di quel conflitto proprio a Guadalcanal, e Malik vi è tornato sedici anni fa per girarvi il film. La potenza tecnologica messa a disposizione della follia distruttrice degli uomini aveva scelto quel remoto Eden per alloggiarvi nel corso della più grande ecatombe del ‘900. In una delle scene iniziali del film una pattuglia di soldati americani avanza nella foresta. Un indigeno viene loro incontro e prosegue, neppure li guarda. Come se l’enormità di quella presenza aliena fosse per lui invisibile. Forse, come l’uomo nudo che rubava il riso, anche lui non guardava per non essere guardato, per non essere visto, per guadagnare una reciproca invisibilità. Furono visti purtroppo. Settanta anni dopo di quelle immense e atroci ferite non sono visibili neppure le cicatrici. Troppo forte, violenta, arrembante la vitalità della vegetazione. Per loro fortuna anche il turismo - soprattutto australiano - è poco diffuso e sparso nelle numerose isole dell’arcipelago. La sola potenza che allieta e tormenta gli abitanti dei villaggi è tornata ad essere la natura. Qui Leopardi avrebbe ammirato una superba smentita e una tragica conferma del suo Dialogo fra la Natura e l’Islandese.

www.youtube.com/watch?v=P_rcjYoYlVw

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