RINGRAZIAMO SAN CALO' E POI PENSIAMO A DECOSTRUIRE di Tano Siracusa

La frana di un pezzo della collina orientale della città ha fatto pensare a molti che su Agrigento si è davvero posata la mano di un santo protettore. E sappiamo tutti chi è, con buona pace di s. Gerlando. Poteva essere una grande tragedia ed è invece un nuovo grande dramma, che questa volta investe un luogo simbolo dell’Agrigento ‘moderna’ e borghese e coinvolge i suoi abitanti. Ai quali va naturalmente la solidarietà di tutti gli agrigentini.
Il territorio cittadino sta presentando ai suoi abitanti il conto del saccheggio perpetrato ai suoi danni dal secondo dopoguerra, diciamo dall’abbattimento di Villa Garibaldi.
Ha perfettamente ragione Stefano Vivacqua nel suo romanzo quando sostiene che non ha alcun senso addebitare a responsabilità per quello che è successo soltanto alle classi dirigenti, al ceto politico o imprenditoriale, a un partito, a questo o a quell’altro sindaco.
Arrivava la modernità, e tutti, amministratori, vescovi, giornalisti, intellettuali, semplici cittadini di tutti i ceti festeggiavano l’abbandono dei catoi bui e maleodoranti della città in tufo e l’avvento della verticalità in cemento armato, accessoriata da ascensori, bidè, strade asfaltate per le automobili, vedute a volo d’uccello sulla valle e sul mare.
C’è voluta la frana del ’66 per rendersi conto che la festa era finita, ma già uno dei territori più affascinanti del Mediterraneo si era trasformato in un paradigma di urbanizzazione scellerata, che aveva definitivamente compromesso un futuro possibile, quello di una città di arte, di cultura, di bellezza, e quindi anche di grande turismo internazionale.
Purtroppo la ‘decostruzione’ (riparatrice e programmata) della cattiva modernità di cui non si è neppure voluto discutere sta avvenendo spontaneamente, in centro storico per l’abbandono (la città deve essere infinitamente grata agli immigrati per averne abitato buona parte garantendone la manutenzione) e nella Agrigento moderna per l’insostenibilità fisica (quella estetica e funzionale non è stata percepita dagli agrigentini) dell’impatto edilizio.
Non ha senso adesso prendersela con questo e con quello. E neppure con le ‘classi dirigenti’ di allora. C’era la guerra alle spalle, la miseria, gli stenti degli anni ’50, ma anche la voglia di ricominciare e di fare il grande salto, di lasciarsi alle spalle un passato che Pirandello descriveva come sappiamo e che quelli della generazione di Mario La Loggia ricordavano senza alcun rimpianto. Cittaduzza sporca, Girgenti, le mosche, la merda degli animali in via Atenea, le facce selvatiche dei contadini di Rabato, la miseria, e quella pazzia del San Calò: che è poi l’unica cosa che bene o male è rimasta in piedi della vecchia città. E saremo in molti ad averci pensato in questi giorni, con buona pace del vescovo normanno.
Adesso si può solo provare ad avviare un nuovo, difficilissimo inizio, che dia la priorità al risanamento del territorio. La questione della Cattedrale, e di quel pezzo di collina sta lì, enorme e minacciosa. Come quella dei tolli. Enormi e minacciosi.
Non sono un tecnico, ma sono sempre più convinto che costruire una sola casa nuova ad Agrigento come in tutto il territorio nazionale, non abbia alcun senso, che sia necessaria una nuova generazione di piani urbanistici che puntino sul recupero dei centri storici e delle periferie, su una mobilità pubblica e a basso consumo energetico, e che pongano come premessa il consumo zero del suolo.
Capisco che non è questo momento, ma è di questo che prima o poi si dovrà ragionare anche nella nostra città.

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