ARCHITETTURA E LINGUAGGI. COSA CI MANDA A DIRE IL CENTRO STORICO DI AGRIGENTO? di Davide Natale
Molte discipline del fare umano sono paragonabili ad un vero e proprio linguaggio, composto da vocaboli, sintassi e grammatica, pregni di senso comune condiviso e riconosciuto.
Quanto detto riguarda anche l’architettura intesa come arte del costruire, la sua evoluzione ed il susseguirsi dei suoi stili e delle sue forme e, quindi, del suo linguaggio, delle sue modificazioni, dei suoi salti temporali e dei suoi rimandi, attraverso le diverse interpretazioni del reale che col tempo ha dato.
Basti pensare, ad esempio, al rinascimento italiano e al linguaggio utilizzato dagli architetti del tempo per progettare e realizzare piazze, edifici, chiese, intere città, ed all'uso dell'ampio vocabolario per esplicitare un’idea di costruito attraverso la propria visione del mondo. Colonne, lesene, fregi ed archi a comporre, come parole, il vocabolario di una sintassi di ordine geometrico, simmetrie ed ritmo degli elementi, giustapposizione di forme chiare e definite, il tutto in un lessico completo, forbito e delineato.
Ed ancora il barocco, con i suoi archi policentrici, le ridondanze delle facciate dei palazzi e delle chiese, le sue straordinarie compressioni dello spazio e le illusioni prospettiche azzardate e spiazzanti. Chi, trovandosi in Piazza San Pietro, fra il colonnato del Bernini che abbraccia il visitatore come a darne un saluto di benvenuto, non si è soffermato a interrogarsi sul senso dell’immensità, a leggere una poesia in pietra di rara bellezza?
E poi ancora, molto tempo dopo, il ‘900, straordinario secolo nel quale si vede dapprima imporsi il razionalismo, sia esso formale che funzionale, frutto di purezza e controllo geometrico assoluto e maturo dello spazio per poi, pochi anni dopo, assistere all’esatto contrario, laddove alla nitidezza e riconoscimento delle forme, tutte concorrenti esclusivamente all’abitare umano secondo i dettami della scuola del Bauhaus (e dei supporti filosofico-teorici, fra gli altri, di Martin Heidegger e Ludwing Wittgenstein) si assiste alla decomposizione della stessa materia, e alla decostruzione della geometria euclidea invertendo il paradigma della materia composta per l’umano abitare.
Basti pensare agli straordinari infingimenti statico-geometrici delle architetture di Peter Eisenman, Frank Gehry o Zaha Hadid. Esempi noti ai quali si accede tramite un costrutto sintattico complesso ed una grammatica molto articolata. Modificazioni, queste, raggiunte anche grazie all’immenso supporto che l’innovazione tecnologica ha permesso ai materiali del costruire e alle immense possibilità del loro controllo.
E la tecnologia ha suggerito, o per lo meno concorso a suggerire, anche nuovi vocaboli e nuove grammatiche. La necessità infatti, frutto della consapevolezza che le risorse non soltanto energetiche posseggono un limite ha, negli ultimi decenni, posto problematiche rilevanti e imposto ragionamenti intorno a grandi temi quali la bioedilizia, il risparmio energetico, il consumo di suolo, le energie rinnovabili, il recupero dei fabbricati antichi, ed ancora la pedonalizzazione delle aree urbane, la mobilità alternativa e molto altro. Il tutto in un quadro di etica dell’architettura e di anticipazione concreta del domani, di quelle che saranno le città future, la loro sostenibilità all’interno di un sistema globale. Tutto questo è, oggi, al centro del dibattito che si compie intorno all’architettura, e che interroga fra i più grandi teorici viventi.
Possiamo affermare, dunque, che il linguaggio dell’architettura, nel suo mutare, si è reso sempre più globalizzato e condiviso, per lo meno nel mondo occidentale, ma non ha perduto di vista il legame con il territorio, declinando, di fatto, i grandi temi mondiali alle dinamiche più locali e territorialmente puntuali. Una lingua globale e condivisa, interfaccia di condivisione di senso comune, incardinata nei dialetti locali che, a loro volta, oltre a custodire tradizioni e culture, ha permesso uno scambio immediato e immenso di soluzioni e diversificazioni, ampliando a dismisura le possibilità conoscitive. Questo sembra essere l’oggi in architettura, laddove le immense possibilità di scambio di conoscenze rendono ogni singolo fabbricato un vocabolo di una lingua non più, e non soltanto, dialettale, ma al contempo in grado di comunicare oltre i confini riconoscibili della sua pertinenza territoriale.
L’urbanistica, ad esempio, ha posto sovrastrutture teoriche internazionali, e posto problematiche del controllo del territorio ad ampia scala, divenendo fra l'altro biblioteca immensa da cui attingere informazioni, suggerimenti, soluzioni.
E proprio in merito all’urbanistica, come disciplina mirata al disegno, o ridisegno, delle città future, negli ultimi anni sembra che il dibattito si sia incardinato al fine di dirimere la questione che vede da un lato il tentativo di immaginare le città nuove, o l’espansione e sviluppo territoriale delle stesse e, dall’altro, la necessità di limitare quanto più possibile, se non addirittura evitarlo, un ulteriore consumo di suolo e l’enorme spreco di risorse che questo comporta, attraverso un attento e misurato consumo di suolo e materie, risorse energetiche ed economiche. E, fra i punti più discussi, ma che vede la comunione di intenti della quasi totalità degli urbanisti e degli architetti, ritorna la necessità del recupero dei centri storici, per lo meno nelle nazioni dove questi, e l’Italia sopra tutte, sono non soltanto numerosi ma anche di inimitabile bellezza.
E quando si discute di recupero dei centri storici altro non si fa che porre, primo fra tutti, il tema della mobilità pubblica e privata, il controllo rigido delle automobili, la necessità di destinare quanto più spazio possibile ad aree pedonalizzate e attrezzate, il controllo dei flussi viari e pedonali, la possibilità di utilizzare le nuove tecnologie per rendere eco-sostenibile il sistema città.
Basti pensare, ad esempio, a molti dei comuni del centro Italia (che già in vero qualche decennio addietro si sono posti il problema del recupero dei centri storici).
Se Siena, Urbino, Perugia, Camerino, San Gimignano sono a noi note ed apprezzate, lo dobbiamo ovviamente all’ingegno dei loro fondatori, ma sicuramente anche al fatto che queste sono state conservate nella loro bellezza complessiva di cui noi, oggi, siamo da viandanti lieti fruitori. Città che hanno affrontato la modernità, anzi la hanno attraversata e a tratti anticipata, in un quadro di gestione urbanistica colta e sapiente, ispirandosi al principio della conservazione della bellezza e della storia che le ha generate. L’eleganza delle piazze, delle case, delle pietre tagliate che le compongono restituisce l’idea di un popolo colto ed attento alla propria storia ed alle proprie tradizioni, di una cultura pregna di fierezza e nobiltà d’animo e d’intenti. Un linguaggio forbito ed articolato quello di molti centri storici d’Italia, siano essi rinascimentali o barocchi, minuscoli e geometrici o articolati e complessi. Ma sempre con particolare attenzione allo sviluppo tecnologico e alle possibilità che la modernità offre.
Di questo linguaggio dell’architettura oggi si discute nel mondo, e di come questa attenta conservazione ha dato anche possibilità economiche mirabili, di cui l’intera cittadinanza raccoglie i frutti. Un linguaggio, dunque, globalizzato, ma sempre declinato alle realtà locali.
Se tutto quanto sino ad ora affermato è non del tutto errato, ci si domanda allora del centro storico di Agrigento, del suo attuale stato di conservazione, e conseguentemente del suo futuro sviluppo. Quale lingua parla, oggi, l’architettura ad Agrigento? Quale possibilità di sviluppo, in quali termini, e con quale grammatica? È prosa o poesia? O soltanto una elencazione di termini sintatticamente scorretti privi di senso e senza alcuna possibilità di dialogare e, quindi, di esser compreso?
A queste domande avverto la necessità di rispondere affermando che il centro storico di Agrigento è, seppur privo di palazzi degni di particolare nota, nella stesura dei suoi pieni e vuoti, nel reticolo di strade e piazze e cortili, nel rapporto con il mare davvero di rara bellezza, e diviene unico, e quindi preziosissimo, se a questo leghiamo il rapporto che stabilisce con la Valle dei Templi ed il suo linguaggio. Un unicum morfologico ed architettonico che avrebbe davvero potuto rendere Agrigento una delle realtà urbanistiche più affascinanti al mondo.
Ed invece è accaduto che la fine del secolo scorso, con la connivenza culturale della classe dirigente del tempo, della classe imprenditoriale e professionale, e nel silenzio di quasi tutta la cittadinanza, Agrigento ha subito una mortificazione urbanistica di rara gravità, con inserimenti di volumi sgrammaticati ed ignoranti, miopi e violenti. Mutati i modelli culturali, frutto della ripresa economica del dopo guerra, la domanda di nuove abitazioni, in nuovi quartieri, ha causato sia lo svuotamento del centro della città che la costruzione di una cinta muraria di palazzi e una innumerevole serie di quartieri periferici che oggi rappresentano un compendio concreto di oscenità edilizia. Ma tant’è, ed oggi ci troviamo a discutere se accettare o rifiutare una eredità ignorante, ingombrante ed imbarazzante.
Che fare? Il dilemma non è certo di semplice o immediata risoluzione, ma credo sia arrivato il momento per discutere, apertamente, della Agrigento futura, e del passaggio di consegne che l’attuale classe dirigente affronterà. Sapremo riscattare le colpe dei nostri predecessori ed utilizzare questo tempo non solo come momento personale, ma come possibilità sociale?
Discutere degli strumenti urbanistici vigenti, individuarne le criticità e indirizzarle verso orizzonti lontani e corretti, ed invertire la direzione fin qui intrapresa, senza paura e senza infingimenti, in una grammatica dell’architettura della città che apra ad orizzonti culturali moderni, con un linguaggio colto e condiviso. E, primo fra tutti, la nuova Agrigento non può non attraversare il nodo cruciale di un piano di mobilità moderno ed efficiente, con una corretta ricollocazione dei servizi urbanistici necessari ad una comunità, ed un riposizionamento dei punti nodali di mobilità, dei servizi primari e secondari, dell’offerta culturale, formativa e turistica. Soltanto dopo ipotizzare ulteriori interventi edificatori, specie se frutto di una grammatica antica e non più adeguata al nostro tempo che non può non mirare lontano, nella consapevolezza che la concretezza non è più l’oggi, ma risiede nel domani, ragionando attentamente sulle forme e le funzioni del costruire.
Forma e sostanza sono, infatti, fondamentali anche in architettura.
“Se io potrei lo picchierei” è, senza dubbio, un abominio formale.
“Se io potessi lo picchierei”, è nella forma corretto, ma rimane un abominio di violenza.
Penso, infine, e lo dico francamente a tutti coloro che avversano il progetto Terravecchia (ed io fra questi), che fallirei culturalmente, così come fallirebbe un’intera società, se dovessi ricorrere a questioni di legge per dirimere dati elementari, o soltanto per irrobustire, specie quando queste sono di natura culturale, le mie idee.