LE SERATE DI VIA VALLICALDI. VENTENNI CREATORI DI BELLEZZA E DI UNA NUOVA IDEA DI CITTA' di Tano Siracusa
Il successo delle prime due serate in via Vallicaldi è stato superiore alle aspettative, pur ottimistiche, degli organizzatori. Almeno millecinquecento persone hanno invaso spazi disertati fino a un mese fa dall’abbandono, dall’incuria, dai crolli, dal buio, anche dalla paura, e soprattutto dal tabù di una nostra ‘via del campo’ rimossa dal perbenismo cittadino, senza poeti che ne svelassero l’umanità nascosta ma profonda.
Adesso decine di artisti, architetti, volontari hanno portato laggiù immagini, musiche, installazioni, un po’ di bellezza; ma hanno anche riparato delle perdite d’acqua, rattoppato l’asfalto sconnesso, creato due piccoli giardini dove c’erano solo macerie e rifiuti. Hanno ottenuto un cassonetto, subito colorato dai pittori, sparito dopo la prima serata e riapparso prima della seconda.
Non v’è dubbio che fra i protagonisti di questa avventura i più numerosi, presenti, efficaci, siano stati giovani sotto i trenta anni. Neolaureati e laureandi, studenti universitari. Soprattutto i ragazzi dell’associazione NonSoStare, la maggior parte iscritti in Architettura e quelli, un po’ meno giovani, di Artficio ( l’età media degli associati di Labmura è più alta, ma principalmente per mia responsabilità).
Un paio di considerazioni. Il contesto attuale, e non solo in Occidente, è quello di un giovanilismo di segno rovesciato rispetto alle ultime due precedenti stagioni culturali ’giovaniliste’: quella fascista dei primi anni ‘20 e quella anarcoide degli anni’60. Entrambe quelle due generazioni hanno dovuto sperimentare, dopo l’ubriacatura dei vent’anni, le disillusioni e le sconfitte dei loro sogni giovanili nei decenni successivi. Sono stati ventenni trascinati da ideali opposti, ma c’era un orizzonte comune fra le prime camicie nere di Mussolini e gli studenti con l’eskimo e le barbe ottocentesche che si recavano a volantinare ai cancelli delle fabbriche: quello della crescita, dello sviluppo illimitato ‘delle forze produttive’, come scriveva Marx.
Oggi il contesto è cambiato. Gli anni ’20 e gli anni ’60 del secolo scorso sono stati due decenni di crescita dopo le catastrofi belliche, di jazz e poi di rock, di euforia; il decennio che stiamo vivendo è un decennio di crisi, con l’ Italia ancora in recessione, che non può non fare i conti con la fine del paradigma della crescita illimitata.
Il protagonismo giovanile di oggi sembra spontaneamente orientato verso un orizzonte dove la crescita illimitata non appare solo impossibile ma neppure auspicabile. Un orizzonte all’interno del quale la sopravvivenza della specie umana può essere affidata solo a un governo mondiale delle risorse, che tenga innanzitutto conto delle compatibilità ecologiche delle nostre ambizioni di ‘sviluppo’ e che persegua una distribuzione ragionevolmente equa dei beni prodotti.
I ventenni di oggi, quelli che intervengono in via s. Antonio, a Terravecchia, e in via Vallicaldi sembrano spontaneamente orientati verso il recupero dell’esistente, il riciclaggio, la creazione di spazi verdi, il risparmio dei materiali; sembrano insomma aderire in modo immediato a un ‘minimalismo’ che spesso diventa premessa e contesto di invenzioni creative, di cifre estetiche. Non fanno molti discorsi ideologici, più radicalmente ‘vivono’ il rovesciamento di un paradigma. E’ come se avessero interiorizzato l’insensatezza, già segnalata da Bob Kennedy mezzo secolo fa, del PIL come misuratore della crescita e quindi del benessere.
Probabilmente questa sua adesione non ideologica ma esistenziale al nuovo orizzonte della scarsità potrà garantire questa generazione dalle sconfitte dei ventenni del secolo scorso. Di sicuro l’intervento di LabMura , di Artificio e di NonSoStare e delle altre decine di volontari, pone oggi al centro della discussione la città, la sua identità, la sua storia.
Ma lo fa con la consapevolezza della radicalità delle scelte che su scala locale si renderebbero necessarie se si assumesse il nuovo paradigma del ‘consumo zero’ del suolo, coerente con l’assunto dell’insensatezza e impraticabilità della ‘crescita illimitata’.
Agrigento ha il territorio di una metropoli. Il mercato immobiliare sta franando (non solo la collina della nostra Cattedrale) . Si sono costruite troppe case che rimangono invendute, mentre esiste un enorme patrimonio abitativo in centro storico che va in malora e potrebbe ancora essere recuperato.
Forse questi ventenni riusciranno a vivere una città che torna ad abitare il suo centro, che lo abita e se ne prende cura, che lo offre ai visitatori; dove le automobili sono state espulse e verso dove dalle periferie risanate gli abitanti possono recarsi su mezzi pubblici elettrici, utilizzando le due metropolitane di superficie da Aragona e da Porto Empedocle. L’idea di città che emerge dagli interventi in via S. Antonio e in via Vallicaldi mi sembra questa. Un’utopia?
Certo, se si volesse perseguire questa idea di città e di centro storico è chiaro che bisognerebbe da subito ragionare su nuovi strumenti urbanistici, e questa sembrerebbe roba di politici, di sindaci, di urbanisti, imprenditori.
La storia però la facciamo tutti. ‘Siamo noi’ dice De Gregori. Da quando si nasce a quando si muore. Gli anni, i decenni, il tempo passano per tutti, eppure tutti ci stiamo dentro, non solo i ventenni, gli artisti, non solo gli amministratori, i ‘potenti’, quelli di noi ‘che appaiono’ in tv, ma proprio tutti: i senegalesi di piazza Ravanusella che hanno dato una mano, il macellaio che offre la salsiccia, l’abitante del quartiere che si mette a spalare, Annarella e i suoi amici che ogni mattina ci regalano i loro sorrisi.
La forza del nostro intervento è stata finora questa consapevolezza di essere una ‘comunità’, dove ognuno mette quello che può e il frutto del lavoro è di tutti. Su scala cittadina questa forza potrebbe forse sottrarre all’utopia il progetto di una terza Agrigento: dopo quella millenaria in tufo e questa, informe e smisurata, in cemento armato. Una città che ricostituisca per quanto sia possibile la continuità delle costruzioni in tufo, dalle rovine della città greca e romana alle abitazioni, ai monumenti, al tessuto viario della città medievale.
Una città che riprende la sua storia millenaria dopo un secolo e mezzo di cattiva, impazzita, ‘modernità’, divenuta devastante nel secondo dopoguerra.