L'ALTRA LINOSA INVERNALE E INQUIETA di Tano Siracusa

Linosa, dicembre

Linosa d’inverno è ancora più lontana. La stanza in paese costa solo 15 euro, è abbastanza ampia ma è buia e fredda.  Fuori piove.
L'isola sembra quasi deserta, sulle strade vuote si vedono solo gatti diffidenti e qualche ape a tre ruote che gira senza meta. Quando sono uscito per comprare una bottiglia di acqua non ho trovato un negozio aperto. Poi Gaspare mi ha ricordato che oggi è domenica. Domenica otto dicembre.
La pioggia ha impedito lo svolgimento della processione e davanti la chiesa vuota c'eravamo alle 16,30 io  e due carabinieri che mi hanno  hanno chiesto i documenti. 
Loro erano in macchina e il più giovane mi ha invitato a ripararmi dalla pioggia mentre facevano i controlli.
Lei cosa ci fa qui?  mi ha chiesto dopo un po'.
Mi hanno sempre meravigliato le maniere un po’ ruvide, un po’ impacciate, degli uomini in divisa. Ho  risposto di essere   in vacanza e che speravo ci fosse la processione.  Era una risposta sincera  a metà, e  sembrava assurda lì sotto quella pioggia, nella strada principale del paese senza un'anima bagnata in giro.
Ai loro occhi dovevo avere un aspetto poco raccomandabile, malgrado fossi vestito correttamente e i molti capelli bianchi.
Non ci sarà, ha confermato il carabiniere.
Sembrava che non potesse più smettere di piovere; non era ancora buio, ma nella luce diffusa e grigia, ogni cosa sembrava disfarsi, liquefarsi.
Da dentro la  macchina di sera l'isola sembrava immersa in un incantesimo liquido. Gaspare ha guidato per un'ora entrando e uscendo più volte dal paese, percorrendo tutto il nastro asfaltato dell'isola, con i fari che lampeggiavano  sull'interno selvaggio e verde, aspro e scabro, sui muretti in pietra lavica a delimitare minuscole proprietà , lungo la costa rocciosa, scolpita dalla poderosa inerzia del mare in forme fantastiche, deliranti, come ai Faraglioni, sui  moli, gli slarghi  sopra le calette,  o dove solitario svetta il vecchio faro sotto il profilo del vulcano.  Durante un'ora abbondante di vagabondaggio non abbiamo incontrato una sola persona.
Il paese e tutta l'isola sembravano abbandonati, come se tutta la popolazione  fosse fuggita all'improvviso, lasciando accese le luci nelle case e lungo le vie. Soltanto quando siamo scesi  dalla macchina per fumare una sigaretta, da sotto la tettoia del caffè del Papero, abbiamo visto arrivare una macchina sul molo vecchio, girare e scomparire nel buio e nella pioggia. Sopravvissuti.

Dillo a Giusi Nicolini che qui ci sentiamo un po' abbandonati. Prima c'era Aldo che a Lampedusa segnalava i nostri problemi. Adesso non c'è più nessuno.
Lalla  è  milanese e quando Aldo Benusiglio, anche lui milanese, ha consumato il suo tempo di zingaro comunista, - l'ultima parte della sua lunga e complicata vita di avventuriero allegro e travolgente ormai quasi completamente sordo e malato, ottantenne ragazzo - lei ha deciso di rimanere sull'isola.   Qui   durante l'inverno  è un po' triste, ammette.
Attorno  quadri, libri, buon gusto e una quindicina di gatti che si godono le comodità.
In tutte le piccole isole vivono persone che vi sono approdate  per caso, per una vacanza, una fuga di qualche giorno  da un amore, da un dolore, o semplicemente dalla noia della città, e vi sono rimaste.
Aldo Benusiglio vi è rimasto gli ultimi trenta anni della sua vita  e a Linosa è stato Montesquieu e Robespierre, ha fatto, lui comunista, la rivoluzione borghese. Da vivo aveva molti amici e molti nemici, e i primi ora lo ricordano con il rispetto che merita, con la consapevolezza che senza di lui l'isola  adesso è più povera, più lontana dalla Terraferma e anche da Lampedusa,  che a volte si vede dalla costa e sembra vicina, lunga, piatta, sospesa fra il mare e il cielo grigi. 
Qui vivono quattrocento persone, che sono anche quattrocento personaggi, dice Alessandro Ciulla, agrigentino,  che da alcuni anni vive e lavora a Linosa gestendo il Linoikos, una magnifica struttura residenziale che ospita ogni anno delle mostre, che vuole coniugare confort e armonia, cibo genuino e cultura, una piccola utopia di silenzio e bellezza.

Ed è vero, personaggi ce ne sono tanti, e forse lo sono un po’ tutti per necessità. La densità delle relazioni sociali e familiari produce un’autoregolamentazione delle tensioni e dei conflitti che altrimenti rischierebbero di travolgere la comunità. E poi ci provano gusto a raccontare, a teatralizzare il racconto, a sentenziare, forse innamorati del suono del loro siciliano antico.

Nuddu ammazza, nuddu arrobba, chi ci fanno i carrabbinari cca?, dice Piero, un vecchietto arzillo, soddisfatto di sentirsi bene. Lui ogni mattina va in campagna, dove suo figlio ha una casa.

Sembra che tutti abbiano qui una casa in campagna, che produce reddito quando  poi d’estate   l’isola si riempie di turisti e tutte le case in paese e fuori vengono affittate. Ma dura poco, neppure l’intero mese di agosto, e infatti tutti si lamentano.  Chi ha memoria, come Fedele, ricorda volentieri l’isola trenta anni fa, negli anni ’80, quando si attraccava con le barche e Linosa si riempiva    di chitarre, di  bandiere rosse, di ragazzi che in quindici abitavano in una casa  con i sacchi a pelo; ma c’erano allora anche i ristoranti pieni, i locali, addirittura la discoteca oggi abbandonata, a due passi dalla bella casa di Giovanni, pittore bresciano, che da cinque anni vive  qui, a dieci minuti di passeggiata dalle ultime case del paese.

Ogni estate Giovanni espone  le sue tele, e finora è andata bene, ha venduto sempre. Il pittore si riempie gli occhi della luce e dei colori abbaglianti di un Mediterraneo profondo, lontano.  Non ha la macchina, non ha la televisione, non legge i giornali che sull’isola non arrivano. Vive bene, con i linosani mantiene buoni rapporti, dopo averli via via aggiustati  su una misura  che ha reso ad esempio non più  ricevibili le visite improvvise, nelle ore più disparate delle lente, oziose  giornate degli abitanti.

I problemi ci sono, reali e gravi. I collegamenti con la terraferma, anzitutto, e poi l’assistenza sanitaria, la scuola, adesso il piano paesaggistico ritenuto da una parte dei linosani  troppo vincolistico. E, sullo sfondo, la crisi economica dell’isola. Anche sotto questo profilo si ricordano gli anni ’80 come gli anni di un’età felice, quando c’era il macello, e si pascolavano gli animali. 

Sarà. Ma l’unico pescatore giovane di Linosa è Enzo, che si vede sfrecciare con la sua ape a tutte le ore del giorno e della sera, e che chiede in modo teatrale a se stesso e  alla notte: ‘Ccà, chi ci facemu ccà?’, indicando con il braccio la strada principale del paese, dove si agitano tre o quattro ombre e risplende il neon rosso di una cometa natalizia. Enzo  dice che  se ne vorrebbe andare, anzi ha deciso che se ne andrà. Ma lo dice da anni, e sempre parte e poi ritorna. 

La pesca, dicono, non è remunerativa. E neppure l’agricoltura lo è,  perché viene praticata da pochi, da alcuni anziani soprattutto, e forse più per passione  che per convenienza economica. 

Si lamentano un po’ tutti, anche un imprenditore edile, che  spiega come tutto sull’isola sia più caro per via del trasporto. Dice  che la Regione, il Comune di Lampedusa, lo Stato sono assenti e che d’estate ha cercato inutilmente fra i giovani linosani qualcuno disposto a lavorare nel suo cantiere. 

Il tempo rallenta, ristagna, galleggia sospeso nella grande pioggia dove germogliano e fioriscono i racconti, le leggende.

Ma se la leggenda degli anni ’80  i giovani devono farsela raccontare dai cinquantenni, i ventenni di oggi lavorano a fabbricare la nuova leggenda per i loro figli, quella del film Terraferma. L’isola trasformata in un set. Il sogno, l’utopia, i soldi, movimento, allegria, forse anche troppa dice ammiccando qualcuno.  Ma la cuccagna c’è stata davvero e ricordarla adesso fa luccicare gli sguardi. Poi il film ai linosani non è piaciuto, e non per la storia che raccontava ma perché l’isola quasi non si vedeva.

La storia no, quella è piaciuta. Quella storia dalla parte dei disperati  che fanno rotta verso l’isola più grande, che rischiano di finire in fondo al mare. Anche perché i linosani quando gli immigrati sono arrivati sull’isola li hanno accolti con umanità, la farmacia ha portato le medicine, portavano le coperte. Solo che, dice Silvia, poi ci sono stati problemi con la ristorazione, perché quelli di Lampedusa volevano fornirla loro. Una questione di soldi, come sempre, dice con un sorriso. 

Anche Silvia è una ‘straniera’, veneta, vive da alcuni anni a Linosa, stregata dalla natura: dalla finestra della sua casa entra una luce  che fa brillare gli orli dei bicchieri, che sa di una primavera fuori stagione.

 

Linosa, aprile

L’aula grande della scuola elementare è stracolma. Saranno più di duecento, più della metà della popolazione. C’è molta attesa, molto nervosismo dissimulato nella lunga attesa di Giusi Nicolini, finalmente sull’isola piccola assieme alla sovrintendente ai beni culturali di Agrigento e ad un funzionario della regione, il dott. Buffa.  All’ordine del giorno la discussione sul Piano Paesaggistico. Discussione preceduta dalla costituzione di un comitato con 240 iscritti, da violenti attacchi in consiglio comunale al Sindaco e al delegato sindaco, una ragazza, culminati con una lettera anonima di minacce a quest’ultima, e da un vociferare su norme e vincoli del Piano che avrebbero sbarrato ai linosani qualsiasi prospettiva di ‘sviluppo’. Quale  tipo di sviluppo ispiri la contrarietà al Piano è facile immaginare, e comunque lo sa bene Giusi Nicolini, ambientalista storica, che ha con pochi altri  cercato di contrastare l’abusivismo  a Lampedusa, resa assai più inospitale dalle brutture edilizie che dal fantomatico rischio di contrarre malattie esotiche.

Portavoce del comitato è un architetto del nord, Valerio, invocato in coro dai suoi, che esordisce con un attacco a testa bassa al Sindaco  scatenando subito la bagarre, e che poi si mette a leggere un documento pieno di riferimenti a norme e leggi subito contestate, precisate o chiarite  dal funzionario regionale.

L’assemblea dura quasi tre ore, fra clamori, insulti, sceneggiate sul canovaccio di ‘Linosa è dei linosani’ e il tentativo, alla fine riuscito, di illustrare il Piano, spiegare l’iter di approvazione, sollecitare la formalizzazione delle critiche e  delle osservazioni, fugare gli allarmismi. Il clima rimane comunque arroventato, avvelenato, mentre Nicolini che ha fronteggiato  le contestazioni a muso duro, riprende il mare per Lampedusa accompagnata dai suoi. 

All’assemblea, gli ‘stranieri’ c’erano quasi tutti, un po’ distaccati, consapevoli che non avranno voce in capitolo. L’unico modo per loro è prendersela a forza la parola, come aveva cominciato subito a fare Aldo Benusiglio sbarcando da Milano alla fine degli anni ’70,  raccontando, anche con articoli sull’Unità,  di quando nell’isola impiccavano i gatti agli alberi perché rovinavano l’orto, non c’era l’attracco per la nave  e sembrava di vivere ai tempi di Don Rodrigo. Anni lontani, remoti, leggenda per molti isolani. 

Mancava all’assemblea la farmacista, straniera pure lei, palermitana. 

Per me, dice lei impassibile, l’isola può sprofondare domani, con tutti i suoi abitanti. L’importante è che ci salviamo io e i miei gatti. 

Ce ne sono una decina fuori dal negozio che non sembra una farmacia, e non solo perché vi si vende anche una incoerente oggettistica, per la musica ad alto volume, per tutti quei gatti davanti l’ingresso, ma per un’atmosfera di intrattenimento festaiolo che viene poi dissolta dalle parole che la farmacista scandisce assorta, come una rapita veggente. 

Sostiene di essere la farmacista più povera d’Italia e che se ne andrebbe domani. Però la sera, quando entra nell’unico caffè aperto  e qualcuno propone di dedicarle una canzone, prima si schermisce, dice di no, poi abbozza un sorriso che si allarga sempre più, come la fisarmonica che ha cominciato a suonare.

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